Professare pubblicamente la fede
Di Luciano Pace
Ieri mattina, secondo giorno di scuola, durante un’ora “buca” ho avuto modo di fare una bella conversazione con un il mio collega di grafica Andrea, una persona sensibile, colta e molto riflessiva. Le buone conversazioni di vita quotidiana con amici e colleghi degni di stima sono un dono da accogliere sempre con grande disponibilità perché sono le occasioni migliori per stimolare il pensiero e la riflessione. In questo caso specifico, all’origine del conversare fra me ed Andrea c’era un’impressione condivisa: oggi molti cristiani sembra si vergognino o abbiano timore a professare pubblicamente la loro fede in Cristo. Mentre chi lo fa, spesso, lo esprime in maniera esagerata, come se fosse una specie di tifoso sfegatato di Gesù.
Puntualizzo subito, a scanso di equivoci, che il collega non è cristiano cattolico, come chi scrive. È, piuttosto, un cristiano “apolide”, ovvero in cerca di una Chiesa in cui si sentirsi finalmente a casa. Il problema è esattamente questo, però, dal suo punto di vista: mentre la Chiesa Cattolica non può essere per lui “casa”, perché ha l’impressione che in essa si predichi troppo poco di Cristo, invece, le chiese luterane sono esagerate nel dare eccessiva importanza all’annuncio a parole.
Per motivare questa sua impressione per la parte che è collegata al cattolicesimo, visto che stava parlando con me, il collega ha fatto riferimento ad alcuni passi della Sacra Scrittura che segnalano quanto sia importante per chi ha fede non temere di annunciare Gesù come Signore e Dio di ogni uomo. Fra i passi da lui citati, due in particolare suonano eloquenti. Il primo afferma: “Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli” (Marco 8, 38). Il secondo invece dichiara: “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Romani, 10, 9).
Siccome l’impressione di Andrea mi è parsa sensata, vorrei provare a riflettere su questa dimensione del “confessare con la bocca” che Gesù Cristo è il Signore. Perciò… Facciamo finta che Arturo sia un buon padre, o almeno un padre decente. Chiediamoci: che cosa lo rende padre? Il fatto che sia decente nell’esserlo? O, piuttosto, il legame di relazione con coloro che sono suoi figli? Ovviamente, la risposta è scontata: Arturo è padre a motivo del legame con i suoi figli. Per loro è meglio, non c’è dubbio, che egli sia un buon padre. Ma, non è la qualità della sua testimonianza educativa a conferirgli la dignità di genitore.
Continuiamo il ragionamento. Facciamo finta che uno sconosciuto chieda ad Arturo se sia padre di Giacomo. Quando la sua risposta sarebbe vera? Ovviamente in due casi. Primo: egli è effettivamente padre di Giacomo e, quindi, dice di sì. Secondo: non ha alcun figlio di nome Giacomo e, perciò, dice di no. Come si stava sostenendo, la verità della risposta di Arturo alla domanda postagli dipende non dal modo in cui egli esercita la sua paternità su Giacomo. Potrebbe essere, ahimè, un pessimo padre per lui. Ciò nonostante, se egli è suo padre e dice che lo è a chi glielo chiede, non sta mentendo solo perché non è un granché come papà. Infatti, quanto sarebbe assurdo se uno lo apostrofasse così: “Siccome so che sei un pessimo padre, allora la tua cattiva testimonianza dimostra che non sei affatto padre di Giacomo”.
Ebbene, per analogia, applichiamo un ragionamento simile a chi confessa a parole che “Gesù Cristo è il Signore”. La verità di questa affermazione non dipenderà da quanto sia decente o buona la relazione che egli ha con Colui che chiama Signore. Non è la sua testimonianza buona di vita che dice della verità della relazione che ha con il Signore Gesù. La verità sta solo nel fatto che sa di essere in relazione con Lui, anche se tale relazione fosse da lui giudicata pessima a causa dei suoi peccati. Tuttavia, a chi gli chiedesse se Gesù per lui è il Signore, direbbe la verità: sì, lo è! Non credo, però, si sognerebbe di giustificare questa cosa in base a quanto si sente perfetto nella testimonianza come discepolo. Se giudicasse in questo modo, sarebbe simile ad un assurdo signor Arturo che ritenesse di essere padre di Giacomo a motivo del fatto che giudica di essere un buon padre e non in virtù della relazione di paternità-figliolanza che lo lega al figlio.
Ed è questo, esattamente, l’aspetto problematico indicato dal mio collega rispetto all’annuncio di Cristo fatto dentro la Chiesa Cattolica: molti confratelli cattolici pretendono di confessare che Gesù Cristo è loro Signore ritenendo che non abbia più senso dirlo pubblicamente a parole (nemmeno nell’atto del benedire), come insegna san Paolo nella Sacra Scrittura, ma solo presumendo di testimoniarlo decentemente con la loro vita. Tanto che, per assurdo, sarebbero coloro che non lo confessano affatto a parole che, in realtà, sono i suoi veri discepoli, rispetto a chi, invece, si riempie la bocca del suo nome a vanvera.
E, c’è da dire, questi confratelli critici nei confronti di chi troppo facilmente professa il nome di Gesù Cristo dando l’impressione di essere un suo tifoso da stadio, non hanno tutti i torti. In un altro passo della Sacra Scrittura, infatti, si legge: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demòni e fatto in nome tuo molte opere potenti?”. Allora dichiarerò loro: “Io non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, operatori di iniquità!”» (Matteo 7, 21-23).
Il problema sollevato dal collega è dunque molto serio teologicamente e coinvolge la vita quotidiana di ogni credente in Cristo, indipendentemente dalla comunità ecclesiale a cui si sente fedele. Quale valore dare alla confessione di fede in Cristo a parole se, da un lato, viene chiesto di professare pubblicamente come Signore e Dio e, dall’altro, viene minacciato dal suo stesso Signore se non lo fa con cuore sincero e davvero umile?
Immaginiamo un’altra scena, restando all’esempio di Arturo è di Giacoomo. Arturo è padre di Giacomo. Uno gli chiede se sia padre di Giacomo, ma Arturo non lo dice perché pensa fra sé e sé: “Se gli rispondo, non sarei un buon padre”. La situazione, anche in questo caso, è assurda, ovviamente, ma serve ad amplificare il senso del discorso. Ora, se Giacomo fosse lì vicino senza che suo padre lo sapesse e lo sentisse non rispondere, che cosa penserebbe? Come minimo gli direbbe: “Papà, perché non rispondi? Hai dei problemi a dire che sei mio padre? ti vergogni, per caso?”. Pensiamo anche al caso opposto. Se Giacomo sentisse qualcun altro e non Arturo che dicesse di essere suo Padre, ma non lo fosse in realtà, quand’anche fosse il migliore dei padri esistenti di qualcun altro, Giacomo, sentendo quel tale squinternato, potrebbe rimproverarlo dicendogli: “Scusi, ma lei come si permette di dire che è mio padre? Perché mente?”.
Ebbene, a me pare che questo sia il senso di quanto san Paolo insegna sulla confessione pubblica e verbale di fede in Gesù ricordata nel versetto iniziale. Quando qualcuno ci chiede se siamo in relazione a Cristo, ovvero abbiamo fede in Lui, perché mai aver timore di professarlo pubblicamente, se così è? Certamente, questa professione non va presa alla leggera, né banalizzata. Ma se è vera? Per queste ragioni, a tutti i confratelli che credono di poter giudicare malamente chi oggi ha ancora il coraggio di affermare, anche a parole, che Gesù è il Signore e il Figlio di Dio, direi di stare più sereni. Se mente, corre un grosso rischio, come chi dice “Signore, Signore”. Ma se dice la verità e la sua parola viene da Dio, che male fa? Non rispetta forse una sensata ed esplicita indicazione data dalla Sacra Scrittura?
A conclusione, spero che questo breve ragionamento – un po’ cervellotico a dire il vero e me ne scuso col lettore – sia di aiuto nel comprendere la sensatezza dell’impressione del mio collega. E, qualora chi sta leggendo si sentisse un migliore discepolo di Gesù a motivo della sua silenziosa testimonianza, con bontà provi a verificare con discernimento vero se dietro il suo silenzio non ci sia piuttosto un moto veniale di vergogna, o se, peggio, sia all’opera un sottile atto di superbia. Del tipo: siccome io sono bravo a testimoniare con la mia vita, allora vuol dire che sono migliore di chi, da povero peccatore, confessa apertamente a parole che Gesù è il Signore, anche se la sua vita sembra molto lontana da Lui. Chi è così saggio da saper scrutare il cuore di un altro confratello, non avvedendosi di scandagliare con più raffinatezza il proprio?
Se poi fra questi confratelli, ci fosse qualche collega insegnante di Religione Cattolica che ritiene orribile questa riflessione a motivo del fatto che noi insegnanti di Religione Cattolica non dovremmo mai professare pubblicamente la nostra fede a scuola perché siamo in una repubblica laica, risponderei dicendo di andare a rileggere l’articolo 19 della nostra Costituzione repubblicana e ritrovare un po’ di pace nel cuore. Perché, credo, si accompagna al credere nel cuore che Gesù Cristo è davvero Signore, vero Dio e vero uomo, la disponibilità a confessarlo pubblicamente, pur sapendo la propria condizione di poveri peccatori in relazione a Lui. Ritenere, invece, che sia la nostra presunta buona testimonianza di vita a fondare la verità della confessione pubblica della propria fede in Gesù è proprio una blasfemia. Infatti, come ricorda sempre san Paolo: “Nessuno può dire che Gesù Cristo è Signore se non per opera dello Spirito Santo”. (1Cor 12, 3).
2 pensieri riguardo “Professare pubblicamente la fede”
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Caro Luciano,
due parole sulla professione di fede. I fedeli cattolici, quando partecipano alla Messa domenicale, fanno tale professione pubblica recitando il Credo.
Tuttavia, la professione esterna della fede è necessaria tutte le volte che il nostro silenzio potrebbe essere interpretato come una negazione di essa. Non dobbiamo nasconderla per rispetto umano, poiché la franca affermazione della fede è una grande testimonianza di amore verso Nostro Signore.
Come giustamente osservato, Gesù dice nel Vangelo: “Se uno mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’ io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli. Se invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’ io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. Ogni volta che il nascondere, o tacere la nostra fede può sottrarre onore a Dio, farci passare da non cristiani, scandalizzare, si offende gravemente il nostro Creatore.
Al contrario, il primo apostolato, molto fruttuoso ed efficace, è quello di manifestare pubblicamente la fede, e confermarla con una vita vissuta in maniera coerente.
Se l’autorità pubblica, o privata vuol farci porre degli atti contro la fede, come nel caso degli imperatori romani, che volevano far bruciare ai cristiani qualche grano d’incenso agli idoli, è obbligo morale rifiutare, anche se si tratta di perdere la vita, come lo hanno fatto i martiri. Non si può neppure fingere, come facevano coloro che sono stati chiamati “libellatici” ai tempi delle prime persecuzioni. Non sacrificavano, ma compravano il libello, decreto che testificava che avevano sacrificato agli idoli, commettendo così ugualmente un grave peccato di scandalo.
Pertanto, in determinate situazioni, la professione pubblica è necessaria per non peccare gravemente contro la virtù di fede.
Ciao
Andrea
Grazie Andrea. I tuoi accenni di ordine storico sono molto opportuni. Aggiungo solo che la Chiesa dei primi secoli e dei Padri, come sai, nella sua sapienza e con l’aiuto di santi come Agostino da Ippona, comprese che i libellatici a cui hai fatto accenno (tra cui anche vescovi), con opportuni cammini penitenziali, potessero essere perdonati e riammessi alla comunione ecclesiale, in nome dell’unità della Chiesa, santa, apostolica e universale. Tanto l’eroismo dei martiri, quanto la misericordia verso i peccatori pentiti sono segni di quella buona testimonianza che si accompagna alla professione di fede pubblica. Grazie ancora.