Il più comico degli inganni!

Di Luciano Pace.

In settimana ho pubblicato la recensione di un bel libro, letto nelle scorse vacanze natalizie. Si tratta del volume di Roberto Mercadini intitolato: “La donna che rise di Dio. E altre storie bibliche” (clicca qui per accedere alla recensione). In uno dei capitoli di questo libro, l’autore offre un’interpretazione del racconto di Genesi 3 con la quale vorrei mettermi in dialettica contrapposizione, evitando, però, il conflitto comunicativo. Immagino che all’autore non dispiacerà, visto che è uno studioso serio di cultura ebraica (molto più di me che scrivo) e sa benissimo che la disputa era una delle modalità con cui si insegnava nelle scuole farisaiche (per inciso, noto che “farisaico” in questo caso non è da prendere in senso dispregiativo, ma solo come aggettivo del nome “fariseo”).

A giudizio di Mercadini, il racconto di Genesi 3 mostrerebbe che Dio mente e, invece, il serpente dice la verità. Da un certo punto di vista sembra proprio così. Infatti, il serpente dice alla donna (ishà) che Dio è un mentitore: se mangerà del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non morirà, ma le si apriranno gli occhi. In quel momento capirà di essere simile a Dio. In effetti il racconto conferma la versione del serpente. Dopo aver mangiato del frutto proibito, l’uomo (ish) e la donna non muoiono, ma si aprirono loro gli occhi. Perciò, pare propio che Dio abbia mentito, secondo quanto vuole il Mercadini. Tutto questo sarebbe motivato dal fatto che il desiderio più profondo del cuore umano è quello della conoscenza. Tale desiderio è la nostra “croce e delizia”: ci pone in contrasto con le proibizioni di Dio da cui, in un certo qual modo, il serpente stesso ci ha liberato.

Senonché, a me pare che il racconto sia ancora più intrigante di così. Provo a illustrare il mio modo di vedere, adottando una prospettiva teatrale, prospettiva amata dall’autore. In altre parole, immaginiamo che il racconto sia come una scena di teatro antico, in cui si svolge una vicenda tragicomica. Anzitutto, viene presentato il protagonista, ovvero il serpente, di cui si dice che è la più astuta delle bestie fatte dal Signore Dio. Il racconto ci avverte: attenti, guardate che entra in scena l’astuto! E chi è l’astuto se non chi ci inganna dicendo il vero? L’astuzia non è la menzogna. La persona astuta fa uso della verità per trarre in inganno. Domanda: dove risiede l’inganno del serpente?

Se si segue il racconto in continuità con le parti precedenti (Genesi 1 e Genesi 2), si sa che dell’uomo e della donna è già stato detto che sono fatti ad “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1, 26). Il tranello del serpente si mostra proprio in questo: far dubitare la donna sul fatto che lei e l’uomo sono già simili a Dio, come Egli ha detto. Il serpente questo lo fa benissimo: insinua il dubbio nella donna che lei non sia già divina come Dio ha detto, ma che possa farsi simile a Dio con un atto di disobbedienza ad un suo precetto (non mangiare il frutto dell’albero del sapere il bene e il male). Ora: se la donna e l’uomo sono già “simili a Dio”, in che senso potrebbero desiderare di diventare “simili a Dio”? L’inganno è sottile: un conto è esser “divini”, un conto è voler farsi “come Dio”. Un conto è essere figli di un padre, un conto è volersi sostituire al padre. Il tranello riguarda appunto il desiderio di soppiantare Dio per esercitare i due poteri di cui Egli solo è il Signore: lo stabilire che cosa è bene e che cosa è male (primo albero) e il dare la vita immortale (secondo albero).

Se questo è chiaro, mettiamoci nei panni di Eva. A chi non sembrerebbe allettante l’ottenere di essere “come Dio”, nel senso di avere il suo potere, sostituendosi a Lui? In realtà, agli occhi del narratore ebreo la scena dell’inganno nei confronti di Eva appare comica. Infatti, nella tradizione culturale ebraica, il sostituire Dio (con se stessi o con qualcuno che Dio non è) è il più grave dei peccati, ovvero, l’idolatria. “Non avrai altri dei al mio cospetto” (Es 20, 3; Dt 5, 7). Eva, appare, quindi ridicola: simbolo di ogni uomo e donna che intende fare a meno del vero Dio, cercando di rubargli il posto nel governo dell’universo.

Per comprendere a fondo questo sguardo comico, è opportuno tener presente una conoscenza lessicale che anche Mercadini richiama nel suo libro, ma non riferendosi a questo racconto, bensì a quello dell’Annunciazione a Maria Santissima. La parola “conoscenza” nella tradizione ebraica non riguarda solo il venire a sapere di qualcosa (l’essere informati di una notizia), ma soprattutto il comprendere esistenzialmente qualcosa. Il verbo conoscere in Ebraico biblico è “yada“, che significa “percezione profonda del senso di ciò che accade”. Un conto è sapere che cos’è far l’amore in teoria, un conto è “conoscere” una donna nel far l’amore. Un conto è sapere che l’uomo è mortale (che “si muore”, nel dire di Heidegger), un conto è la morte di un proprio caro amato. Che cosa immaginava, dunque, la donna? Di conoscere davvero in profondità Dio e la sua Essenza? Di voler fare lei la dea? Eppure, facendoci sorridere, il racconto ci regala la sua profonda verità: tutti siamo come la donna di Genesi 3. Noi umani aneliamo a farci simili a Dio. Per inciso, in questo il teatro è meraviglioso: tramite la finzione, insegna la verità profonda su chi siamo noi poveri mortali pensanti.

Ebbene, quando l’uomo e la donna mangiano del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, il racconto ci pone di fronte non al fatto che il serpente aveva ragione e che Dio aveva mentito, ma al fatto che l’inganno del serpente ha funzionato a dovere: dimentichi che erano già divini e convinti di sostituirsi a Dio, la donna e l’uomo conobbero di essere nudi. Il serpente è riuscito nel suo intento: dicendo la verità sul fatto che si sarebbero aperti i loro occhi, li ha condotti alla percezione della loro rovina. Dio non ha mentito. Più avanti si dirà che l’uomo (adam, maschio e femmina) morirà, ritornando alla polvere da cui è stato tratto (Gn 3, 19). Piuttosto, è il serpente che è riuscito ad ingannare! Il processo comunicativo illustrato nel racconto è quello della “tentazione“.

La ridicolizzazione comica dell’inganno continua dopo l’assaggio del frutto dell’albero del sapere, quando la scena racconta che l’uomo e la donna cercarono di coprire la loro nudità con foglie di fico. Qui occorre notare che i fichi a cui la narrazione fa riferimento è probabile non siano quelli che crescono oggi sulle nostre colline italiche. Siamo in zone del medio-oriente, desertiche per lo più. Forse si fa riferimento alle foglie di fico… d’India. Provate a pensare di coprirvi i genitali con una di quelle foglie. Non è forse ridicolo? Certamente! Deve essere ridicolo, così come è ridicolo ogni uomo che pensa di farsi simile a Dio, non curandosi della vera relazione con Lui, fatta di “timore e tremore”, come suggeriva saggiamente S. Kierkegaard. Quale uomo, infatti, è come Dio? Solo lo stolto pensa che non ci sia il vero Dio, ovvero di sostituirsi a Lui. Questa è la sapienza comica biblica, sparsa spesso anche in altri libri oltre Genesi.

Perciò, seguendo questa ermeneutica teatrale, la conclusione che personalmente trarrei è che il racconto intenda comunicare la stupidità dell’idolatria. E che cosa si fa di fronte alla stupidità per la saggezza ebraica: la si deride mettendola in scena in una narrazione. Il racconto di Genesi 3 vuole porci in contatto profondo con una verità esistenziale che tendiamo a dimenticare: l’originalità del peccato. Se ci si pensa con calma, ogni volta che commettiamo un peccato siamo ridicoli come la donna e l’uomo di cui si racconta in Genesi 3. Il racconto, immaginando un evento all’origine dell’umanità, ci fa conoscere in verità che cosa si origina esistenzialmente ogni volta che crediamo saggio soppiantare Dio al posto di seguire i suoi santi precetti. Quando compiamo il male, infatti, che cosa facciamo se non coprire le nostre malefatte alla bene e meglio? Così facendo, non siamo forse simili a chi si copre l’intimità con con una foglia con spine acuminate?

E quando veniamo scoperti, cosa facciamo? Ovviamente, scarichiamo il barile delle colpe sugli altri: “Non sono stato io, neh, Dio! No, no, accipicchia. La donna che tu mi hai posto accanto mi ha ingannata“! Così, la donna appare agli occhi dell’uomo ingannatrice come il serpente è stato per lei ingannatore. Sarà forse un caso che il volto del serpente affrescato da Michelangelo sul soffitto della volta della Cappella Sistina, sia lo stesso volto… della donna? E se ogni uomo (femmina o maschio) è figlio di donna, Eva (che in Ebraico significa “mamma“) non è l’archetipo straordinario di ogni essere umano ferito originalmente da questa inclinazione al male da cui si sente attratto? In questo racconto è la donna rappresentativa anche dell’umanità maschile, non viceversa. È opportuno tenerlo ben presente per i tempi in cui stiamo vivendo.

In conclusione, diversamente da quanto indicato da Mercadini, Genesi 3 non credo intenda comunicare che Dio mente. A me pare che inviti a sorridere di quell’umana esperienza che è la tentazione, esperienza che conduce il cuore a desiderare di volersi sostituire a Dio. Di fronte a questa esperienza conviene farsi due risate, ridicolizzando l’umanità che si lascia sedurre dal serpente. Una simile prospettiva è anche quella di Clive Staples Lewis. Egli, nelle sue “Lettere di Berlicche“, ci suggerisce che il miglior modo per sconfiggere la bestia astuta e quello di prenderla in giro. Se la si prende troppo sul serio, come ha fatto la donna, simbolo di ogni adam, c’è il rischio che i suoi inganni funzionino e ci conducano poi a doverci vergognare di fronte a Dio della nostra nuda stupidità.

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