A proposito di “dottrina”
Di Luciano Pace.
«Complesso logicamente strutturato di principi, di nozioni, di precetti ordinato all’insegnamento». Questa è la definizione etimologica della parola “dottrina”. Se si considera con attenzione la definizione, si nota che il significato di una dottrina è dato da due elementi: a) l’esser logicamente strutturata e b) l’esser orientata all’insegnamento.
a) Rispetto alla disposizione logica di una dottrina, si può osservare quanto segue. Per prima cosa, nessuna dottrina (né scientifica, né filosofica, né teologica, ecc.) può essere imposta con la forza ad una mente. Diversamente da come molti immaginano superficialmente, una dottrina non è dogmatica nel senso che la si possa imporre contro la volontà e l’intelligenza di chi la ascolti. Piuttosto, risulterà dogmatica in un altro senso, ovvero certa e sicura, per chi avrà avuto la pazienza di comprendere l’ordine di senso sotteso a quella dottrina.
Facciamo un esempio. Prendiamo la dottrina matematica chiamata “Teorema di Pitagora”. Data la geometria euclidea e i numeri razionali, questo teorema è una dottrina nel senso che è un insieme ordinato di nozioni matematiche. Il valore di questa dottrina non risiede nel fatto che uno la comprenda accuratamente. Il suo valore di certezza, ciò per cui è un “dogma” geometrico euclideo, sta nella sua logicità. Perciò stesso, quando una mente comprenderà l’ordine logico di tale teorema, ne accetterà la verità geometrica senza imposizione, ma per personale convinzione razionale. Ecco, questa dottrina matematica non è dogmatica perché è imposta contro la ragione, ma in quanto si mostra in accordo con un ordinato esercizio di ragione.
Un secondo aspetto riguardante l’ordine logico delle dottrine. La logicità di una dottrina non risiede nella sua formulazione linguistica. Mi spiego. Un insegnante di matematica potrebbe esporre in modi molto diversi il Teorema di Pitagora. Non c’è un unico procedimento per farlo. Tuttavia, l’importante è che, qualsiasi sia il modo in cui lo si formuli, con un disegno alla lavagna, con delle linee in un campo o con qualsiasi altro mediatore didattico, la formulazione comunichi l’ordine logico del teorema. Di conseguenza, il significato di una dottrina non varia al variare delle sue formulazioni linguistiche, a meno che la formulazione sia confusa o inesatta.
b) Rispetto al suo essere orientata all’insegnamento, ogni dottrina ha come scopo la comunicazione di una qualche verità circostanziata. Che si tratti di verità matematiche, di verità biologiche, astronomiche, storiche, filosofiche, ecc., poco importa. Una buona dottrina insegna qualcosa se comunica qualche verità disciplinare. Non per nulla, quando si insegna, si segnalano gli errori che, inevitabilmente, vengono commessi. Non si tratta di un atto di giudizio verso chi sbaglia. Si tratta di indicazione del valore di verità della dottrina. Infatti, che cosa ce ne faremmo di insegnamenti fasulli? Il presupposto di chi insegna, anche del più incapace e inconsapevole degli insegnanti, è di insegnare qualcosa di vero collegato alla sua materia.
Anche in questo caso, la verità collegata ad una dottrina non dipende da quanto un insegnante sia capace di spiegarla o giustificarla. Ovviamente, un insegnante che espone le dottrine della sua materia con chiarezza facilita di molto la comprensione dei suoi studenti. Tuttavia, la verità di ciò che insegna è contenuta nella dottrina stessa e a lui consegnata da una tradizione disciplinare. Nessun insegnante di matematica, per quanto pessimo, può modificare la verità del Teorema di Pitagora con il suo insegnamento. Tale verità non può nemmeno essere smentita dalla scarsa comprensione degli studenti. Infatti, uno studente potrebbe ascoltare molte volte spiegazioni di questo teorema senza comprenderne il senso. Ciò nonostante, la sua “incomprensione” non annullerebbe comunque la verità geometrica del teorema.
Tutto questo, per certi versi, vale anche per le dottrine teologiche, ovvero quelle collegate alla fede cristiano cattolica. La verità della “dottrina cristiana”, ovvero dell’insieme logicamente strutturato dei principi, delle nozioni e dei precetti ordinati all’insegnamento delle verità collegate alla fede in Dio, non dipende né dalla bravura di chi insegna, né dalla comprensione di chi impara, né dalle formulazioni con cui la si presenta. Su questo san Tommaso d’Aquino ha offerto grande chiarezza: la verità della “dottrina sacra” (così egli chiamava la teologia ai suoi tempi) non risiede nelle sue formulazioni linguistiche, ma nei significati ad esse collegati. È sufficiente che le formulazioni siano coerenti con i significati dottrinali.
Inoltre, le verità di fede della dottrina sacra non sono tali perché vengono comprese da chi le ascolta. Infatti, siccome superano la ragione umana, chi le ascolta le può solo intendere e non comprendere pienamente. Infine, chi insegna la dottrina sacra non può spiegarne il senso, se con questo si intende riuscire a dimostrarne la verità in modo puramente razionale. Dio non può essere detenuto in poveri umani ragionamenti. E meno male che non può! Ciò nonostante, un buon teologo può certamente esporre le verità di fede con chiarezza (e magari anche con bontà) per lasciarne intuire il valore a chi ascolta, quand’anche non ne cogliesse immediatamente il valore mentre ascolta.
Chi legge, ora, potrebbe domandarsi il senso di questa disquisizione sulle dottrine. Ho deciso di scrivere questo articolo pensando ad una esperienza di vita. Qualche tempo fa incontrai un teologo che mi apostrofò con decisione affermando: «Gesù Cristo non è una dottrina, è una persona da amare». Certamente il contenuto dell’affermazione è condivisibile per chi ha la fede teologale. Tuttavia, che cos’è questa affermazione di fede se non l’esposizione linguistica di una dottrina secondo cui, appunto, la relazione con Dio non è solo un’insieme di idee ben ordinate da avere nella testa?
Pensandoci con calma, tutti quelli che se la prendono con le dottrine, non solo teologiche, lo fanno esponendone altre a loro volta, sebbene non sempre appaiano chiari, logici… ed educati nell’enunciarle. Mi domando perciò: perché l’amore verso una dottrina dovrebbe deteriorare il soggetto a cui quella sapienza si riferisce? Perché, restando all’esperienza citata, insegnare la tradizione di fede cattolica implicherebbe una sorta di sconfessione dell’amore verso la Persona di Cristo? A me non pare che i due aspetti siano alternativi. Anzi, tutto il contrario! Se un insegnante di matematica appassionato verso la sua disciplina cercherà di mostrare quanto sia bello e buono il Teorema di Pitagora ai suoi studenti, perché un appassionato di Gesù Cristo dovrebbe, invece, deteriorare la fede in Lui presentandolo ai suoi come Seconda Persona della Trinità?
In definitiva, ho l’impressione che dietro la paura “della dottrina” di fede ci sia in realtà un’insicurezza di chi insegna. Forse, addirittura, una mancanza di assenso certo. Ma, se non erro in ciò che ho esposto in questo diffuso articolo, tale insicurezza non è tale da annichilire la verità della dottrina stessa. In effetti, anche il miglior insegnante di Religione Cattolica non può far sorgere la fede in Gesù Cristo con il suo insegnamento nel cuore di un incredulo studente, visto che, secondo la dottrina cristiana stessa, la fede in Cristo Gesù è dono della Grazia di Dio, non conseguenza dell’abilità con cui un insegnate la espone a lezione.