Se la vita fosse…
Di Luciano Pace.
Un articolo dedicato ad alcuni modi diffusi di intendere il significato fondamentale della vita.
Una volta all’anno propongo agli studenti delle classi quinte della Scuola Secondaria di Secondo Grado (le vecchie “superiori”) che frequentano la mia materia un esperimento mentale. Chiedo loro di ipotizzare una conclusione alle seguenti affermazioni: “Se la vita fosse un diritto…”, “Se la vita fosse un previlegio…”; “Se la vita fosse un mistero…”; “Se la vita fosse un dono…”; “Se la vita fosse una condanna…”.
Ecco alcuni dei risultati di questo esperimento. “Se la vita fosse un diritto, non la si dovrebbe negare a nessuno”. “Se la vita fosse un diritto, non la si potrebbe togliere a nessuno”. “Se la vita fosse un mistero, ciascuno sarebbe sempre un’incognita a se stesso”. “Se la vita fosse un mistero, comprenderne il senso richiederebbe un grande impegno”. “Se la vita fosse un privilegio, ciascuno dovrebbe dimostrare di meritarla”. “Se la vita fosse un dono, andrebbe sempre accolta con meraviglia”. “Se la vita fosse un dono, sarebbe importante trattarla con premura”. “Se la vita fosse una condanna, tanto varrebbe togliersela di persona”. “Se la vita fosse una condanna, meglio sarebbe non esser nati”.
Di fronte a simili pensieri, si constata anzitutto come sia ancora spiccata l’intelligenza degli adolescenti. Basta solo dar loro l’occasione di esprimere ciò a cui hanno pensato. In secondo luogo, le loro risposte lasciano intendere gli immaginari collegati ad alcuni concetti che, nella vita quotidiana, utilizziamo senza troppo farvi attenzione: diritto, privilegio, dono, condanna, mistero. Su questi concetti provo ad offrire qualche invito al pensiero, nella speranza che sia di aiuto alla personale meditazione.
Cominciamo con la parola “diritto”. Essa è normalmente considerata contraria a “privilegio”: questo è ciò che si acquisisce per merito; quello è ciò che deve essere garantito a tutti. Negare un diritto è togliere ciò che spetta. Tuttavia, da cosa dipende tale “spettanza”? Che cosa la giustifica? Nel caso del privilegio è facile rispondere: la sua spettanza dipende dal corrispondere ad un’esigenza di chi lo può concedere. Pensiamo al feudo medievale: era concesso come privilegio da un signore al suo vassallo a motivo del legame di vassallaggio.
Nel caso di un diritto, per esempio il diritto alla vita, il diritto umano alla base di ogni ordinamento giuridico democratico, chi ne è il garante? “Un parlamento” si risponderà quasi automaticamente. Tuttavia, una simile giustificazione ha un difetto: come possono coloro che godono di un diritto (gli esseri umani) essere al contempo coloro che se lo attribuiscono? Non sarebbe questo qualcosa di più simile ad un privilegio, concettualmente parlando. Certo! Di fatto è così.
L’esempio più chiaro per comprendere questo paradosso sono le leggi democratiche sull’interruzione volontaria della gravidanza. In teoria stabiliscono che il diritto alla vita è riconosciuto a tutti fin dal suo inizio, cioè il concepimento. Poi, in pratica, decretano che venire al mondo diventa un privilegio concesso dai genitori o dalla sola potenziale madre. Questa contraddizione, penso, sorge appunto per un vizio di fondo: un diritto non può essere stabilito da chi lo concede a chi lo detiene, ma deve trovar ragione nella natura di chi lo possiede già ed, eventualmente, se lo può veder negato da chi gli fa prepotenza. Ma se le leggi umane non sono che un ulteriore modo per permettere ai forti di prevaricare sui deboli, dove risiede il loro valore di diritto?
L’esito di questa contraddizione è che ciò che dovrebbe esser percepito come diritto, la vita, lo si interpreta alle volte come una “condanna”: la condanna a vivere. Fra le motivazioni che vengono addotte a favore dell’aborto, molte vanno in questa direzione. Per esempio, quando si crede che una vita menomata nella salute fin dal suo inizio sia necessariamente destinata ad esser pessima o infelice. Oppure, quando si ritiene che le circostanze dolorose del concepimento determineranno gli esiti infausti della vita del nascituro. Nessuno, in realtà, ha una magica clessidra sul futuro: la nostra mente umana non può predeterminare in assoluto ciò che accadrà.
Oppure ancora si ritiene la vita una condanna quando alcune condizioni di salute intervenute nella vita, sono sentite come impedimenti all’espressione di sé: malattie gravi, forme più o meno gravi di paralisi, ecc… In tutti questi casi, il considerare la vita come diritto assegnato dagli uomini, conduce, per assurdo a percepirla come un peso doloroso da sopportare, tanto da concludere tragicamente: “varrebbe la pena non esser mai nati”, frase che lo stesso Giobbe affermò nelle dolorose circostanze in cui si trovò a vivere.
Per uscire da questa sorta di circolo vizioso “diritto-privilegio-condanna” cui siamo costretti dalla mentalità odierna, potrebbe essere utile lasciarsi ispirare dagli altri due concetti: dono e mistero. Partiamo dal secondo. Qualcosa è un mistero quando non è un semplice “enigma”. Un enigma può essere risolto con la forza di un ragionamento. Un mistero, invece, è qualche cosa di fronte a cui si prova sempre meraviglia: ci si accorge che non gli si può dare definitiva spiegazione. Ecco: la vita è spesso proprio così: appare inspiegabile. Pensiamo alle buone o infauste circostanze che la costellano. Agli incontri casuali con altri che diventano motivo di crescita o di guai.
Molto della vita accade al di là di ciò che attendiamo, nel bene e nel male. Perciò, o essa è frutto del caso, della fortuna o dell’arbitrio di divinità illogiche. Oppure, essa è percepibile realmente, dentro un cammino di comprensione lento e faticoso, come un dono continuamente regalato da Colui che ne è l’unico vero Signore. Un dono che è opportunità; in particolare, opportunità di crescita in umanità, attraverso processi di umanizzazione. Noi esseri umani, infatti, non nasciamo bell’e fatti: siamo chiamati a perseguire una finalità stando in vita: diventare gli uomini che Dio sa possiamo essere, quando lo vogliamo con cuore sincero.
In questo, il dono che ci viene fatto da Dio, la vita, non è un souvenir da mettere in mostra. Si tratta di un prestito da investire per far crescere un’impresa: l’impresa di raggiungere quel privilegio che è la salvezza di un’anima imperfetta, che, non sentendosi condannata al peccato, può imparare nel tempo a purificarsi, cogliendo il meraviglioso mistero della misericordia divina, per giungere alla felicità a cui aspira… per diritto divino.