Idee: copie di percezioni
Di Luciano Pace. Sintesi del terzo incontro della Scuola di Filosofia.
Tutta la nostra conoscenza deriva dall’esperienza. In particolare dall’esperienza sensoriale e percettiva. Questo è l’assunto fondamentale di ogni filosofo empirista. Un assunto di questo tipo serve a togliere di mezzo la prospettiva razionalistica secondo cui esistono idee innate. A giudizio di un empirista, è assurdo pensare che esistano idee innate (come immaginava Cartesio), cioè idee che non derivano dall’esperienza sensoriale, perché gli argomenti a sostegno dell’esistenza di simili idee sono tutti infondati. Secondo John Locke, per esempio, uno di questi argomenti è il “consenso universale“: siccome su alcune verità gli uomini sono tutti in accordo e siccome nessun uomo può fare le esperienze di un altro, allora questo accordo deve essere fondato su idee che sono date ad ogni uomo innatamente. Questo argomento è facile da smontare. Basta pensare ai bambini e agli “idioti” (parola usata direttamente da Locke). Infatti, se esistessero idee innate, ogni uomo, anche i bambini e i cerebrolesi dovrebbero conoscerle e comprenderle. Tuttavia, l’esperienza smentisce ampiamente questa circostanza.
Poiché non esistono idee innate, significa che ogni nostra idea nasce e si sviluppa a partire dall’esperienza sensitiva e percettiva. Ogni idea umana, nella prospettiva empirista, è anzitutto e primariamente espressione di percezioni sensoriali. Le idee non sono concetti creati dall’intelletto attraverso l’astrazione a partire dalla percezione (come pensa il filosofo realista). Esse sono copie, rappresentazioni delle sensazioni e delle percezioni soggettive. È da notare un aspetto: il filosofo realista e quello empirista condividono la prospettiva secondo cui i sensi sono all’origine della conoscenza umana. Ma, c’è un abisso fra loro nel modo di interpretare il significato di tale esperienza: per il realista essa rappresenta il reale contatto con le cose corporee; per l’empirista è solo il modo in cui un soggetto sente e percepisce qualcosa che resta inconoscibile. Infatti, nonostante l’empirismo sia una reazione al razionalismo, il presupposto razionalistico secondo cui si conoscono solo idee (e non gli enti reali) è comune ad empiristi e razionalisti. Anche gli empiristi sono fenomenismi: a loro giudizio, noi umani conosciamo solo rappresentazioni ideali della realtà.
Perciò, nel modo di pensare empirista, l’esistenza del mondo corporeo è problematica tanto quanto lo era per il razionalista. Il che desta un certo stupore e ha destato un certo stupore in molti di coloro che hanno partecipato alla serata filosofica. Come è possibile dubitare dell’esistenza di corpi estesi quando si ammette che le sensazioni sono all’origine della conoscenza? Con che cosa le sensazioni ci metterebbero in contatto? Il filosofo realista risponderebbe: con le cose indipendenti dal pensiero. Invece, l’empirista risponde: con il nostro modo di sentire. Perciò, se l’oggetto della sensazione e della percezione è il modo di sentire di chi percepisce (e non l’oggetto percepito), significa che l’atto del sentire e ciò che è sentito nel sentire sono la stessa cosa. Si conoscono sempre e solo “fasci di sensazioni” puramente soggettive.
Si capisce, quindi, che l’esperienza sensitiva e percettiva, nell’empirismo, svolge una funzione di garanzia argomentativa analoga (seppur opposta) alle idee innate per il razionalista: per questo ogni idea era giustificabile grazie alle idee innate (all’idea di Dio in particolare); per l’empirista, ogni idea è giustificabile grazie ai soggettivi stati sensitivi e percettivi. Ciò che conta in termini di conoscenza rimane, però, identico per entrambi: le idee. Gli enti, le cose, i corpi sono problematici e non si può essere certi di conoscerli davvero. “L’idea che noi abbiamo nello spirito non dimostra l’esistenza reale della cosa, più che un ritratto di un uomo non attesti che egli è ancora al mondo”, scrive John Locke.
Come, dunque, dar ragione dell’esistenza dei corpi? La risposta empirista risiede o nella “spontaneità” o nella “fede“: ci viene naturale riferire ad una cosa con cui i nostri sensi sono in contatto quando la pensiamo (così pensa Locke); oppure, come sostiene Davide Hume, noi abbiamo una fede incrollabile verso l’esistenza delle cose corporee perché ci sono idee particolarmente “vivaci” che la attestano nel sentimento. Questa vivacità dipende da due fattori: 1. dalla forza delle emozioni che sperimentiamo (non è quindi l’intelletto o la ragione che fonda la fede nell’esistenza della realtà corporea esterna al pensiero, ma il sentimento); 2. dall’abitudine ad unificare singoli fasci di sensazioni e percezioni in idee unitarie. Questo secondo fattore è particolarmente interessante. Per l’empirista, non potendo egli ammettere di entrare in contatto intellettivamente con le essenze delle cose, non esistono concetti universali che possano riferirsi a tali essenze individue. Di conseguenza, i concetti sono solo i nomi che diamo alle idee come unificazioni di stati sensitivi e percettivi a cui ci siamo abituati. La verità non è più concordanza fra il pensiero e la realtà (come per il realista) e non è più neppure certezza garantita da Dio (come per il razionalista). L’empirista associa la verità all’abitudine con cui unifichiamo in un nome, simbolo arbitrario di un’idea, gruppi di sensazioni e percezioni. Questo nominalismo è la logica conseguenza del soggettivismo percettivo alla base dell’empirismo.
Di fronte alla problematicità dell’esistenza dei corpi c’è, d’altro canto, anche chi arriva coerentemente a negarla del tutto, come fa George Berkeley. A suo parare, se ciò che conosciamo sono solo idee e se le idee dipendono dalle sensazioni, allora la realtà è la percezione, cioè non esiste null’altro se non la percezione: esse est percipi. L’unica realtà che esiste è lo spirito e le percezioni e le idee soggettive sono modi, espressioni dello spirito. Esiste quindi un’unica sostanza, misteriosa, ignota, che si mostra nel sentire, nel percepire, ovvero, nel pensare. Per queste ragioni, Hume concludeva, con correttezza dentro questo modo di pensare, che l’empirismo, rigorosamente condotto, porta ad una posizione teologica di spinozismo (ovvero la posizione teologica di Baruc Spinoza): le idee sono modi di espressione dell’unica sostanza divina.
Durante la serata filosofica, sono stati più volte messe in luce alcune incoerenze interne dell’empirismo. Per esempio, l’associare troppo velocemente i concetti di sensazione e percezione. Sentire è una cosa, percepire è un’altra. La sensazione è un atto o, meglio, un insieme di atti, di uno o più organi di senso corporei. La percezione, come suggerito anche dalla scuola psicologica della Ghestalt, è, invece, un’apprensione unitaria di qualche cosa, fondata sulle e connessa alle sensazioni. Inoltre, come il razionalismo si dimostrava una forma esagerata di spiritualismo, qui, al contrario si esagera il ruolo della sensazione e della percezione rispetto all’umana conoscenza. Tuttavia, questa esagerazione è incoerente. L’incoerenza sta in questo: se si assumono la sensazione e la percezione non solo come origine, ma come fondamento ultimo del conoscere umano, di conseguenza si dovrebbe giungere a ritenere, come sembra aver fatto Thomas Hobbes, che la conoscenza umana sia qualcosa di fisico, ovvero di collegato a processi corporei di tipo neuro-fisiologico. Invece, gli empiristi continuano tacitamente a ritenere che la conoscenza umana, fatta solo di idee, inerisca ad un essere spirituale, senza, però, giustificare questo loro implicito presupposto. È tale pregiudizio, fra l’altro, che conduce l’empirismo a negare l’immediata evidenza dell’esistenza dei corpi.
Infine, dal punto di vista teologico, il modo di pensare empirista conduce ad una forma di curioso pan-psichismo. Tutto è divinamente spirituale, anche ciò che dovrebbe essere corporeo, se esiste. Di conseguenza, la fede di cui Hume parla, ovvero la fede nell’esistenza della sostanza ignota da cui proviene l’origine delle nostre sensazioni e percezioni, è la fede in un divino che si identifica con i corpi e la materialità. Questa posizione teologica è curiosa, come osservavo sopra. E la curiosità sta in questo: nel momento in cui l’individuo si incatena nel suo più ferreo soggettivismo percettivo, tutto il mondo deve diventare divino affinché egli possa sentirsi giustificato serenamente in ciò che crede. Questo, forse, accade perché, come dicevamo durante la serata, gli empiristi sono simili ai “Nani” di Tolkien. Diversamente dagli “Elfi” razionalisti e dagli “Hobbit” realisti, credono che sia di valore solo ciò che è collegato alla terra. Il loro Dio deve essere per forza fatto di pietra e roccia, sebbene essi non possano dimostrarlo ragionevolmente ma solo su spinta del loro amore verso le belle sensazioni che provano a cercar oro e diamanti.