Sinergici nella gioia

Di Luciano Pace.

Recentemente mi è stato chiesto di suggerire una riflessione su un brano del Capitolo 1 della Seconda Lettera ai Corinzi di San Paolo. Il brano scelto riguarda il rapporto fra la saldezza della fede in Cristo e la comunione dei fedeli in Lui nella gioia. Ho pensato di trasformare quella riflessione, proposta durante un quaresimale, in una lezione sul significato della gioia dal punto di vista filosofico e teologico cristiano cattolico.

Al termine del primo capitolo della sua Seconda Lettera ai Corinzi San Paolo scrive: «Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi» (2Cor. 1, 24). Questa traduzione è quella attualmente ufficiale, ovvero la cosiddetta “CEI 2008”. Quale sarebbe il significato di una simile versione? Provo ad esplicitarlo con una parafrasi: “Noi [cioè Paolo e Timoteo] siamo collaboratori della vostra gioia e non abbiamo alcuna intenzione di essere padroni della vostra fede, a motivo del fatto che la vostra fede è salda”. Questa tonalità comunicativa della traduzione potrebbe lasciar intendere due cose. 1. Un atto di rispetto reverenziale di Paolo e Timoteo verso i cristiani di Corinto, del tipo: “Non ci permettiamo affatto di essere padroni della vostra fede, ma solo, più modestamente, collaboratori della vostra gioia, perché tanto voi siete già saldi nella fede”. 2. Un atto di disinteresse verso la fede dei Corinzi: “Siccome la vostra fede è salda, non c’è la necessità (cioè non ci interessa) di presentarci a voi come suoi padroni, ma solo come collaboratori della vostra gioia”.

In entrambi i casi, qualcosa non torna, “non suona” adeguato. Quando qualcosa non torna a livello di significato alla mente di chi studia, la via per verificare è sempre e solo una: ritornare al testo. Così, andando a rileggere sia la versione in lingua greca (la lingua in cui i testi del Nuovo Testamento sono stati scritti) sia quella in lingua latina (la lingua della Chiesa cattolica dal 380 fino al 1965) ho scoperto alcune cose. Confesso di non essere un esperto di queste due lingue. Tuttavia, qualcosa riesco a comprendere. E che cosa ho notato? Molto semplicemente che il testo in Greco (e a specchio quello Latino), affermano solo così: “Noi non siamo padroni della vostra fede, siamo invece sinergici (sunergoi/audiotores) con la vostra gioia: infatti (gar/nam) voi siete saldi nella fede“. Si notano chiaramente alcune diversità di costruzione sintattica rispetto alla traduzione della CEI 2008. 1. “Essere padroni” e “intendere di far da padroni” sono due concetti molto diversi. 2. Essere “collaboratori” di qualcosa e sentirsi “sinergici” con qualcuno sono due esperienze molto diverse: la prima è un fare insieme qualcosa; la seconda un percepire in armonia qualcosa. 3. “Infatti” non ha lo stesso valore logico-sintattico di “perché”: questo introduce una proposizione causale o finale; quello una constatazione di fatto. Insomma: la conoscenza grammaticale e sintattica non sarà tutto, ma in questo caso – a quanto pare – fa la differenza.

L’esito della traduzione sarebbe questo: “È ovvio, cari amici e confratelli in Cristo di Corinto, che io e Timoteo non siamo padroni della vostra fede: la vostra fede è salda. Essendo la vostra fede salda, sapete benissimo che siamo davvero in sintonia con la vostra gioia”. Ecco quella che, a mio giudizio, è la decodifica di significato di quel versetto. Se paio un pochino presuntuoso, mi scuso: è un difetto di chiunque insegna. Vediamo quindi di concentrarci sulla gioia e sulla sinergia tra i fedeli cristiani che la provano. Quale verità di fede vuole porre in risalto San Paolo?

Procediamo con ordine. Partiamo dal definire la gioia. In questo caso, la parola latina usata da san Girolamo nella Vulgata è “gaudium“. Etimologicamente indica “un vivo rallegramento dell’animo di fronte ad un bene ottenuto”. La gioia, quindi, non è solo il piacere. Spesso alla gioia si accompagna anche il piacere, non c’è dubbio. Ma essa è qualcosa di più intenso e profondo. Infatti, può esistere anche senza il piacere. Pensiamoci. Anzitutto, ci sono piaceri che non producono gioia. Chi è dipendente da una sostanza, prova piacere nell’assumerla, ma non gioia, poiché sa della sua mancanza di libertà. Allo stesso modo, lo sballo procura certo piacere, ma non gaudium. Secondariamente, ci sono molte gioie per raggiungere le quali è necessaria fatica e sacrificio, che sono l’opposto del piacere. Conquistare un meritato traguardo sul lavoro dona gioia. L’esserci arrivati è costato impegno e dedizione non sempre piacevoli. Perciò, san Tommaso d’Aquino, conclude che la gioia è l’emozione che proviamo quando sappiamo di essere di fronte ad un vero bene di cui anche godiamo.

Qual è la più spiccata caratteristica della gioia? Per rispondere può essere di aiuto riferirsi ad uno scritto di C.S. Lewis dal titolo “Sorpreso dalla gioia“. Si tratta di una sua autobiografia in cui narra il processo esistenziale e intellettuale, lungo e travagliato, che lo ha condotto alla fede in Cristo. Lewis, afferma che la peggiore via per cercare la gioia è l’introspezione. Scavare dentro di sé non fa trovare la gioia, ma nulla di confortante. Quando si è davvero onesti con sé stessi, l’analisi interiore conduce a notare le nostre mancanze e fragilità. La gioia si scorge, al contrario, fuori di noi. Essa è qualcosa che ci intercetta dall’esterno. Quando si fa incontrare, sentiamo che è ciò che desideriamo anche se essa appare inaspettata. Proviamo gioia quando siamo di fronte al buono, al bello e al vero che ci sorprende. Non è la sorpresa dello spavento. È la sorpresa del regalo desiderato ma inaspettato o del conseguimento per cui si è lottato.

La gioia, quindi, non è altro che la conscia emozione che restituisce la saldezza del Bene, del Bello, del Buono. Noi – continua Lewis – nel desiderarla, ci accorgiamo che non possiamo garantirla, né ci è dato di sentirla sempre. Spesso, invero, il mondo è triste, una landa desolata che appare senza senso. Tuttavia, quando c’è la gioia, un piccolo scorcio del Paradiso a cui aneliamo e di cui abbiamo nostalgia squarcia il naturale grigiore della vita. Grazie alla gioia possiamo disincantare il mondo e comprendere che questa vita è solo una grande apparenza. La sostanza di ciò a cui aneliamo non si trova pienamente qui, ma altrove. La gioia, quindi, rivela, in forma di realissimo e vivacissimo segno premonitore, la presenza di Dio, di cui Gesù Cristo è piena Rivelazione.

Se la gioia è tutto questo, essere sinergici nella gioia, vorrà dire sperimentare sintonia con coloro che l’hanno percepita e ne conoscono il vero significato e la ferrea saldezza. La gioia è la “prova” della verità della fede teologale, secondo Lewis e anche secondo san Paolo. Essa manifesta la Grazia di Dio nella vita di chi spera in Lui. I credenti possono condividerla, ma non possono collaborare nel produrla. Per comprenderlo a fondo, basti pensare al contrario della condivisione della gioia, cioè una delle forme del peccato contro lo Spirito Santo (il peccato imperdonabile), ovvero l’invidia della Grazia altrui. Infatti, siccome la gioia è la manifestazione della presenza di Dio nelle nostre vite, si capisce che nessun fedele in Cristo (laico o ministro ordinato che sia) potrà auto-concepirsi come il suo padrone e produttore. Sarebbe uno scandalo: chi dovesse sentirsi origine della gioia altrui, si sostituirebbe a Dio, presumendo indebitamente di sedere sul trono della Sua Maestà.

Questo dovrebbe essere sufficiente per intendere ciò che, a mio modo di vedere, san Paolo teneva a comunicare ai suoi confratelli cristiani di Corinto. Ciò nonostante potrebbe sorgere una seria obiezione. Ed è questa: non ti pare, Luciano, che questa interpretazione non sia rispettosa dell’esperienza dell’umano soffrire? La vita umana è fatta anche di dolore, sofferenza e morte. Questo modo di considerare la faccenda non banalizza il soffrire e il morire? Rispondo senza timore alcuno: per nulla! Anzi, tutto all’opposto. Mentre scrivo, mi vengono in mente alcune persone malate di cancro che ho incontrato in ospedale. Per esempio la cara Lucia “Stincarela” del mio paese, che amava cantare. Nonostante a qualcuno della sua contrada suonava fastidioso, il suo canto libero e spontaneo era limpida espressione di gioia. Tre giorni prima della sua morte le ho fatto visita: pur nella consapevolezza del suo imminente trapasso era davvero serena, come se tutto fosse a posto. Mi ha detto di non preoccuparmi per lei. Oppure, penso anche a quelle persone che, stando nelle camere mortuarie dei loro cari deceduti, consolano chi si reca a far loro le condoglianze.

Ecco queste e molte altre esperienze di vita confermano che la gioia cristiana non è assenza di sofferenza o eliminazione della sofferenza, come credono i buddisti. Essa è consolazione nella sofferenza. È la beatitudine di chi si sente consolato mentre è afflitto perché sa, di una certezza salda come la roccia, che Dio non disprezza il cuore affranto e umiliato di coloro che gli vogliono bene. “Beati gli afflitti, perché saranno consolati” (Mt. 5, 4). Se quanto affermo ha senso, vuol dire: “Gioiosi gli afflitti mentre soffrono, perché proprio per loro è la consolazione che sentono”. Del resto, non dovrebbe essere difficile cogliere il senso di queste parole a chi ha fede in Gesù Cristo. Egli non è il simpatico saltimbanco del “Paese del Balocchi”. Egli è il Crocifisso-Risorto. Nonostante si tenda a dimenticarlo, la gioia cristiana implica la passione e la croce, non le esclude. Un risorto non inchiodato alla croce non è per nulla il Dio a fondamento sicuro della fede cristiana condivisa nel gaudium. Crederlo è una palese eresia. Solo chi si sentisse erroneamente e presuntuosamente padrone della fede altrui potrebbe osare di presentare la fede in Cristo espungendo il sacrificio redentivo della Croce dalla predicazione sulla gioia donata dal Risorto.

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