Oltre un comodo pacifismo
Di Luciano Pace.
Da tempo ero alla ricerca di una lettura che mi aiutasse a riflettere con realismo e senza facili schematismi ideologici intorno al rinnovato conflitto fra Israele e Palestina. Attendevo una lettura stimolante, realista, che mi conducesse a comprendere più da vicino in che modo le rappresentazioni religiose, con i loro simboli e le loro memorie, sono implicate in quanto sta accadendo sulla Striscia di Gaza. L’occasione è giunta per caso proprio in questi giorni in cui sono venuto a conoscenza della pubblicazione, presso l’Editrice Scholé, di un recente volume dell’amico e collega Massimo Giuliani, intitolato “Gerusalemme e Gaza. Guerra e pace nella terra di Abramo“. Dopo averlo letto tutto d’un fiato, ne ho subito elaborato una scheda multimediale di presentazione (clicca qui per visualizzare).
Ora, invece, sul far della sera, vorrei far comprendere per quali ragioni ritengo che valga la pena leggerlo. Per un insegnate di Religione Cattolica non è affatto facile affrontare in aula queste tematiche di attualità connesse al conflitto israeliano-palestinese senza correre il rischio di dire banalità, se non addirittura sciocchezze. La tentazione di ridurre tutto quanto ad un accomodante pacifismo, condito di manieristico buonismo, giungendo a condannare implicitamente entrambe le parti in conflitto all’errore (evitando la scomodità di un approfondimento riflessivo più faticoso), è molto alta. Lo fa capire bene Giuliani quando, con audace schiettezza, denuncia questo atteggiamento affermando che “fare gli attendisti o i super partes e giudicare con le pantofole sulla poltrona è da infingardi”.
Ebbene, di fronte ad una simile provocazione, sorge spontanea una domanda semplice da porre all’autore: che cosa significa, dunque, da parte di un dotto rabbino ebreo, schierarsi? Schierarsi dalla parte di chi? A me pare che l’autore risponda a tale interrogativo in modo chiaro e distinto: è necessario schierarsi dalla parte di un angosciato realismo connesso alla memoria storico-religiosa di Israele. Questo realismo è, appunto, angosciato perché non procede da un «pacifismo a buon mercato o senza discernimento delle situazioni», ma dalla consapevolezza che la pace è questione di compromesso storico, alle volte anche doloroso, e non un ideale assoluto di ordine storico «perché – nota acutamente l’autore – nella storia non vi sono assoluti».
Questa dimensione del compromesso per garantire la pace è giustificata dall’autore in molti intensi passaggi del testo. Io vorrei qui ricordarne tre, quelli che più da vicino hanno fatto risuonare la mia attenzione e riflessione. Il primo riguarda un antico midrash collegato all’episodio dell’Esodo in cui il Signore Iddio se la prende con i suoi angeli che volevano esultare di gioia di fronte agli egiziani sommersi dalle acque del Mar Rosso. Li rimprovera così: «Come osate cantare ed esultare mentre una parte della mia creazione sta affogando in mare?». A commento di questa interpretazione rabbinica, Giuliani afferma, qualche pagina poco più avanti: «La guerra è guerra, i nemici esistono e vanno temuti, ma occorre preservare comunque una soglia di eticità in guerra, esistono obbligazioni morali anche verso i nemici». Parole simili – mi sono detto – dovrebbero risuonare nel cuore di tutti i soldati israeliani presenti nella Striscia di Gaza e nei loro governanti.
Il secondo spunto di riflessione realistico lo colgo dalle pagine in cui l’autore illustra l’originale interpretazione del pensatore ebreo statunitense Michael Wyschogrod, riferita al rapporto fra il popolo d’Israele e la Terra Promessa ad Abramo. Dopo aver chiarito bene lo stretto legame esistente fra l’identità del popolo ebraico e il possesso della terra di Canaan, il rabbino teologo precisa che tale legame non autorizza ad usare ogni mezzo per conquistare ed abitare quella terra. Piuttosto, Israele deve sentire verso i popoli che ora la abitano la “compassione che è il tratto più profondo della coscienza ebraica”. Infatti, il primo e più importante luogo in cui il Dio di Israele abita è la “carne” del suo popolo eletto, ovvero i corpi dei suoi fedeli. Per queste ragioni, Giuliani conclude, con le parole di Yeshayahu Leibowitz e contro le indebite imprese sioniste di ordine puramente politico-militare, che «non ogni ritorno a Sion è definibile un’impresa religiosa […] Neanche lo stesso ripristino del dominio israeliano sul monte del Tempio ha, come fatto in sé, un significato religioso».
Infine, una terza indicazione, di ordine pedagogico, se così si può dire. Nel quarto capitolo di questa intensissima riflessione etico-religiosa, l’autore si occupa del modo in cui la guerra e la pace sono entrambe presenti nel pensiero religioso ebraico. Con grande onestà intellettuale, Giuliani segnala che l’Antico Testamento biblico contiene sia indicazioni di Dio a favore della guerra sia altre in sintonia con la pace. Ciò nonostante, egli pone in rilievo il fatto che Israele ha imparato nella sua storia a fare a meno delle armi, anche a seguito di tragiche sconfitte militari. C’è, dunque, una comprensione di queste sconfitte belliche come eventi in cui il popolo ebraico si sente educato da Dio ad imparare a non far uso della violenza in suo nome. E che cosa avrebbe imparato Israele in particolare? Ecco la risposta dell’autore: «Nelle fonti della tradizione rabbinica la guerra è stata progressivamente elaborata e trasformata in chiave di conflitto interiore e di lotta spirituale, lotta contro lo yetzer ra’, ovvero la cattiva inclinazione, l’istinto al male».
Questa lotta dello spirito è simile a ciò che i saggi islamici chiamano “jihad“, ovvero “sforzo” per combattere spiritualmente contro la tendenza al male presente nel cuore umano. Su questa inclinazione al male, umanissima ed innegabile, anche il cattolicesimo si trova in sintonia con gli altri due monoteismi e ne offre illustrazione attraverso il mistero del “Peccato Originale” (clicca qui). La diversità sta nel fatto che, per chi ha la fede teologale, è in virtù dell’intervento della Grazia divina, comunicata tramite l’incarnazione, la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, che si può far fronte al demonio in questa lotta interiore, e non solo grazie alla propria forza di volontà. Tuttavia, questo intervento divino è da intendersi, per la tradizione di fede cristiano cattolica, come trasformazione del cuore ad opera dello Spirito Santo, in continuità (non in opposizione) con le promesse fatte da Dio ai profeti d’Israele. Gesù è – cosa che nessun cattolico dovrebbe mai dimenticare – il Messia atteso in Israele.
Per questi motivi – a me pare – ogni fedele cattolico si potrebbe sentire in sintonia con la prospettiva di questo dotto “confratello maggiore” nella fede in Dio che è Massimo Giuliani: il suo cuore non è affatto lontano dal Regno di Dio. E, conoscendolo un poco, so benissimo che anche lui non si sente poi così distante da tutto ciò che nel cattolicesimo invita a prendere sul serio la devozione a Dio attraverso la pratica dei Suoi precetti. Da saggio e dotto ebreo, Giuliani ribadisce che Israele ha ricevuto da Dio un’elezione speciale fra tutti i popoli della Terra; ma tale elezione è relata alla missione di essere segno di quell’Alleanza che Dio desidera stabilire, di generazione in generazione, con ogni uomo ed ogni donna. Per essere testimone veritiero di questa missione, Israele aspira a vivere in pace nella terra di Abramo. Perciò, fa ben comprendere Giuliani, non si tratta solo di calpestare quel lembo di terra, ma di abitarvi in comunione con Dio che è compassionevole e misericordioso verso ogni uomo, anche verso i nemici del suo primo popolo.
Un pensiero riguardo “Oltre un comodo pacifismo”
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Premetto di non aver letto il saggio di M. Giuliani, quindi mi baso esclusivamente su quanto da te scritto, Luciano.
Mi sembra di aver capito che questo “accomodante pacifismo condito di manieristico buonismo” tu lo riferisca, in sostanza, alla mancata messa in pratica dei precetti religiosi che, sia nella yetzer ra’ ebraica che nella jihad islamica, se applicati coerentemente, porterebbero ebrei e islamici a convivere pacificamente perché “Dio è nel corpo dei suoi fedeli” e non nel possesso esclusivo di un luogo simbolico, Gerusalemme, o dell’intera Terra Promessa, fatto che ha storicamente dato luogo a questo conflitto. Intendiamoci, non nel senso che le differenze religiose (come al tempo delle Crociate) siano la causa della guerra, ma che banalmente essa derivi dalla contesa su un territorio.
Ecco che la dimensione religiosa e la dimensione politica vengono però intimamente mescolandosi andando a far parte di una più ampia caratterizzazione culturale dei contendenti.
Sotto il profilo religioso non posso non darti ragione, anche se, mi permetto di evidenziare il suo aspetto utopistico dovuto all’ormai insanabile frattura che nei nostri tempi separa religione ed etica da politica ed economia. Storicamente la religione è stata più motivo di guerra che di pace.
Tuttavia, l’espressione critica sul “pacifismo a buon mercato” che hai usato mi ha colpito, essendo io un pacifista: quindi, mi sono chiesto se sono come quelle persone che, sedute in poltrona, si scandalizzano della fame nel mondo facendo quattro pasti al giorno (per fare un parallelo).
Evidentemente, sto ora affrontando un problema politico (rischiando di andare fuori tema) e non religioso, perché ritengo che un pacifista non potrebbe cambiare le cose semplicemente cercando di essere coerente con i propri sentimenti etici o religiosi, e, l’ipotesi che tutti lo facciano, è, appunto, utopistica. Per inciso, le cose non si possono cambiare nemmeno con un coerente atteggiamento “civico”, visto il sistema in cui viviamo: ci si può solo scandalizzare.
Scandalizzare, p. es. perchè l’Italia nel giugno del 2002, sotto il Governo Berlusconi, ha acquistato dagli USA n. 131 cacciabombardieri F-35 per una spesa di 15 Miliardi di Euro. Per dare un ordine di misura, il rifatto Ponte Morandi è costato 202 milioni di euro, equivalente al costo di un F-35 e mezzo!
Si comprende allora come l’aspetto economico-capitalistico delle spese per la guerra (come dice il Papa) superi e renda superfluo ogni ragionamento su morale, socialità, etica e religione contraddicendo la stessa razionalità umana.
Come pacifista, non voglio stare seduto in poltrona, a volte posso andare alle manifestazioni per la pace o scrivere risposte come questa, parlare di questi problemi con i miei amici, sperando di risvegliare le loro coscienze, ma su una cosa voglio essere chiaro (al di là della mia coerenza etica o religiosa): io non sono per la pace ma sono proprio contro la guerra!
(Mi scuso per aver introdotto questi argomenti in un sito che si occupa dell’insegnamento della religione cattolica.)