Le sensazioni sono affidabili?
Di Luciano Pace. Sintesi del secondo incontro della Scuola di Filosofia.
Durante il secondo incontro della Scuola di Filosofia di quest’anno è stato approfondito il modo di pensare razionalistico. Si è presentata, in particolare, la metafisica di Renato Cartesio, il filosofo della modernità all’origine del razionalismo. Secondo questo modo di pensare, si può essere immediatamente certi solo dell’esistenza del pensiero. Non si può, al contrario, essere sicuri dell’esistenza della realtà indipendente dal pensiero, in quanto essa è collegata alle sensazioni. Siccome le sensazioni spesso ci ingannano, facendoci credere vero qualcosa che non lo è, non ci si può affidare alle sensazioni come criterio di immediata evidenza. Per esempio, la vista ci può ingannare mostrandoci spezzato un bastoncino messo in un bicchiere d’acqua; oppure, l’udito ci potrebbe far sentire suoni che non ci sono, ecc. Da dove ci verrà, dunque, la garanzia dell’esistenza della realtà indipendente dal pensiero?
Questa garanzia ci verrà dall’unica cosa di cui si può essere davvero certi, in forma evidente, cioè indubitabile: il pensiero. Infatti, nel momento in cui dovessi dubitare dell’intera realtà che mi sembra certa, pensando addirittura ad un Dio ingannatore che mi fa credere per vero ciò che non lo è, ciò nonostante, mentre dubito, non potrei dubitare di pensare. Perciò, se penso, allora esisto io come essere pensante. Questa è la prima e la più sicura delle certezze del razionalismo.
Essendo io una “Cosa pensante“, ciò che penso sono sempre e solo idee, non sensazioni. Fra le idee a cui penso, ne esistono di tre tipi: avventizie, che mi sembrano provenire delle sensazioni collegate alla realtà esterna; fattizie, che sono inventate grazie alla mia immaginazione (per esempio, la chimera); innate: che non sono avventizie, né fattizie. Si può notare che, secondo questa prospettiva, conoscere significa essere in rapporto con idee che rappresentano la realtà. Per il razionalista non si conoscono le cose reali, come per il realista, ma rappresentazioni di cose, idee delle cose. L’idea si frappone fra il mio pensiero e la realtà. Quest’ultima, rispetto ad esso, diventa esterna e non solo più indipendente. Il razionalista trasforma la realtà indipendente dal pensiero in realtà esterna al pensiero. Ma come può esistere qualcosa di pensato che è esterno al pensiero?
Inoltre, si potrebbe far notare al razionalista: se io posso essere certo solo dell’esistenza del pensiero e non della realtà ad esso esterna, come posso distinguere le idee avventizie (che da essa mi sembra provengano) da quelle fattizie, visto che queste idee sono sempre e solo nel mio pensiero? A questa domanda, il razionalista risponde facendo riferimento alle idee innate. Le idee innate hanno due caratteristiche: non provengono dall’esperienza esterna (come le avventizie) e non possono essere frutto della pura immaginazione (come le fattizie). Sono per esempio le idee matematiche e le idee geometriche. Oppure, sono anche le idee di essere, di verità, di libertà, di bontà, ecc., ovvero le idee che si usano sovente nel discorso filosofico. Per quale ragione, per esempio, l’idea di libertà non è immaginabile? Perché non posso disegnare la libertà! Posso, al limite, disegnare un simbolo di qualcosa o qualcuno che mi richiami la libertà, ma non posso immaginare la libertà così come immagino, e quindi disegno, l’albero o la chimera. Secondo il razionalista si può, quindi, concludere che le idee innate sono connaturate al nostro pensiero, sono le strutture che ci permettono di pensare razionalmente.
Fra tutte le idee innate, c’è anche l’idea di perfezione. Quest’idea ha delle particolarità per il filosofo razionalista. Anzitutto, siccome dubitiamo della verità, significa che noi esseri pensanti non siamo perfetti. Se fossimo perfetti, non eserciteremmo il dubbio per ricercare la verità: la conosceremmo pienamente e senza incertezze. Perciò, se io che sono imperfetto ho in me l’idea di perfezione, significa che un Essere Perfetto me l’ha donata. Questo Essere è Colui che chiamiamo Dio. In secondo luogo – pensa il razionalista – se io fossi Dio, mi sarei fatto perfetto, dandomi tutte le perfezioni. Un essere è davvero perfetto se e solo se non manca di nulla, di nessuna perfezione. Tuttavia, visto che sono imperfetto, significa che ci deve essere un altro Essere Perfetto, che è Dio, che mi ha fatto e mi ha donato l’idea di perfezione.
Infine, se l’Essere Perfetto non avesse l’esistenza, mancherebbe di una perfezione. Di conseguenza, questo Essere Perfetto deve necessariamente esistere. Con tutto ciò, giunto alla certezza dell’esistenza di Dio, quale valore ha questa certezza per il razionalista? Che cosa se ne fa all’interno del suo ragionare? Per comprenderlo, è necessario ricordare il punto di partenza del procedere razionalistico: il dubbio sull’esistenza della realtà esterna al pensiero. Questa era la questione di partenza: chi mi assicura che le idee avventizie non siano false, visto he non posso fare affidamento alle sensazioni? Che cosa rende certa ed indubitabile l’esistenza della realtà indipendente dal pensiero, se le sensazioni sono ingannevoli? Chi farà da garanzia alla realtà al posto delle mie sensazioni?
Risposta del razionalista: la garanzia è Dio stesso. Infatti, siccome Egli è l’Essere Perfettissimo, di conseguenza deve essere anche sommamente Giusto. Ora, essere perfettamente giusti significa non ingannare. Perciò, Dio non ci inganna! Egli, che regola ogni accadimento nella natura, è il garante dell’esistenza della realtà esterna da cui provengono le idee avventizie. Così, il razionalista è certo dell’esistenza della realtà indipendente dal pensiero: grazie a Dio! Poiché Dio esiste e non è ingannatore, il mio dubbio sull’esistenza della realtà indipendente dal pensiero è infondato: la realtà esterna al pensiero esiste e il razionalismo la chiama “Cosa estesa” per distinguerla dalla “Cosa pensante”.
Questa realtà estesa, che è “là fuori” dal pensiero, non è pensante. Essa è simile ad un orologio ben calibrato e regolato. Tutto ciò che nella realtà non è un io pensante è fatto solo di estensione e di movimento ed regolato dalla sapienza divina. Anche gli animali e i vegetali sono simili a macchine. Dio, rispetto alle “cose estese”, è come un grande architetto o orologiaio: ha messo in moto un meccanismo mirabile nell’universo, un’armonia da Lui prestabilita e in cui tutto funziona alla perfezione. Tutto è talmente perfetto che Egli non si preoccupa di ciò che accade nell’universo, men che meno di ciò che capita agli uomini. Egli contempla con distacco e disinteresse ogni cosa: osserva sereno che tutto accada secondo quanto da Lui prestabilito, in modo mirabile e sincronizzato. Questa immagine di Dio razionalistica e non religiosa (cioè non collegata ad una religione storica) prende il nome di deismo ed è tipica di molti pensatori illuministi e di molti scienziati moderni.
Durante la serata filosofica sono emersi alcuni pregi del razionalismo. Per prima cosa, grazie a questa separazione fra il pensiero e la realtà corporea ad esso esterna si sono potute sviluppare le scienze della natura, compresa l’anatomia. La metafisica di Cartesio, secondo cui il corpo umano è solo cosa estesa e la dignità umana risiede esclusivamente nel pensiero, rende il corpo simile a un “grave” e, come tale, esaminabile empiricamente. In secondo luogo, l’idea che le strutture matematiche e geometriche del pensiero siano innate è la prova del fatto che la realtà può essere matematizzata quando si fa scienza galileiana. È probabile che questa convinzione abbia facilitato l’invenzione della geometria analitica da parte di Cartesio. In terza battuta, il razionalismo ha messo in risalto il dubbio come metodo del filosofare e come modo per ricercare la verità, quando ci si trova nell’incertezza, tanto che, per i razionalisti, filosofare diventa sinonimo di dubitare. Infine, il dubbio metodico di Cartesio si accompagna alla meditazione profonda ed al pensiero svolto con attenzione. Meditare su ciò di cui si può essere certi è un buon modo per evitare di essere precipitosi e, di conseguenza, è una via per tenere a bada gli atti che dipendono da false convinzioni alimentate solo da potenti emozioni. Pensare in modo razionalistico, rende capaci di temperare le passioni e, di conseguenza, abitua ad essere meno precipitosi e prepotenti.
Di fronte al razionalismo il filosofo realista ha uno sguardo di simpatia: ai suoi occhi il razionalista vuole essere più realista… del re. Il punto di vista razionalistico è, infatti, un realismo esagerato: rende la realtà indipendente dal pensiero totalmente scollegata dal pensiero. Per fare questo, però, deve negare totalmente il valore delle sensazioni rispetto alla nostra conoscenza, il che è assurdo agli occhi del filosofo realista: un conto è accorgersi che spesso le sensazioni ci ingannano e, su questo, anche il realismo filosofico è d’accordo con il razionalismo; altro conto è giungere a pensare che non esistono le sensazioni e che non hanno nulla a che fare con l’umana conoscenza.
Inoltre, il razionalista confonde la verità con la certezza: non sempre si è certi di ciò che è vero, nemmeno dopo aver meditato attentamente. Spesso succede di essere convinti di qualcosa di falso e questo non accade certo per colpa di un Dio ingannatore. Del resto, nonostante il dubbio sia di aiuto nel giungere a diventare certi di qualcosa, invece è esagerato pensare che si giunga alla certezza della verità solo per mezzo del dubbio. Non è detto! Ci sono molte occasioni in cui la verità è scoperta grazie alle circostanze e non tanto dopo ordinati e dubitanti ragionamenti. Colui che scopre per caso il tradimento di un amico, non lo scopre perché ha dubitato di lui. Al limite comincerà a dubitare dell’amico traditore dopo che la verità gli si è rivelata. C’è quindi un’arte del dubitare che è successiva alla scoperta della verità, non che gli è previa.
Infine, di fronte all’immagine razionalistica di Dio come il Grande Orologiaio, si erge come obiezione l’evidenza del male e della sofferenza. Se tutto è così sommamente perfetto, donde vengono queste imperfezioni. Se si dovesse rispondere, come farebbe un convinto razionalista, che il male e la sofferenza sono realtà solo apparenti, che smettono di essere tragiche e problematiche se da esse ci si distacca per elevarsi alla comprensione armonica della realtà totale, questa risposta suonerebbe abbastanza crudele. Il male e la sofferenza sono problemi seri, collegati realmente alla vita umana e alla sua tragicità. Un Dio disinteressato a tali problemi, potrebbe essere certo pensato esistente, ma mai e poi mai adorato e onorato. Come onorare Colui che, pur perfetto, non ha nulla da dire ed offrire sulla salvezza dal mio patire e soffrire? Il Dio Orologiaio non è soggetto di devozione e nemmeno… se la merita, a dirla tutta. È il “Dio dei filosofi” come lo chiamava Biagio Pascal: un Dio che serve al razionalista solo a tappare i buchi dell’esercizio dell’intelligenza umana.
Un Dio siffatto sarà anche perfetto; ma la sua perfezione ci stona e non poco. Che significa, infatti, essere perfetto di fronte a chi soffre e muore e non solo ragiona in maniera chiara e distinta? Quale significato mai potrebbe avere per la vita umana quest’idea di perfezione cartesiana, quando ci si accorge ogni giorno che l’umana imperfezione non è segnalata solo dalla capacità di dubitare, ma soprattutto dal peccato, dalla malattia, dalla morte? Ecco, nel momento in cui si prendessero sul serio questi umani interrogativi, si potrebbe giungere alla legittima conclusione teologica per cui il “Dio dei filosofi” è solo l’idea fattizia più carina e spietata che la nostra mente raziocinante abbia inventato.