I precetti della “doppia pace”
In settimana una collega di Lettere mi ha chiesto di poter tenere una lezione sull’Ebraismo in una nostra classe quinta, durante una sua ora di lezione. I motivi sono stati due. Il primo era collegato all’attuale situazione di rinnovato conflitto armato fra lo Stato d’Israele e la Palestina. Il secondo si collegava, invece, ad una curiosità precisa sulla religione ebraica, dato che, con grande consapevolezza, la collega mi ha confidato di rendersi conto di quanto poco sia conosciuta a scuola la cultura religiosa propriamente ebraica.
Tale mancanza di conoscenza è determinata da molti fattori. Ne elenco alcuni: il continuare a persistere della prospettiva ideologica (vera, ma parziale) secondo cui la cultura occidentale dipende quasi esclusivamente dalla Grecità e dal Cristianesimo; il presentare l’Ebraismo come una religione dell’antichità nelle lezioni di storia; il sospetto culturale nei confronti della Bibbia, che non potrebbe essere studiata direttamente a scuola in quanto testo sacro e non solo letterario; il focalizzare l’interesse verso l’Ebraismo quasi esclusivamente in riferimento alla Shoah e alle Giornate della Memoria, cosa, questa, nobile senza dubbio, ma anch’essa parziale.
Tra questi motivi, si può elencare anche la circostanza per cui nelle ore di Religione Cattolica, unico momento scolastico (seppur facoltativo) in cui si può istruire intorno alla Bibbia e all’Ebraismo, normalmente è attiva una poco accorta ermeneutica della continuità, già attiva nella catechesi parrocchiale, secondo cui ciò che conta della religione ebraica è che essa sia anticipo parziale e incompleto di quella cristiana. Per rendersi conto di questa prospettiva è sufficiente osservare un qualsiasi manuale per l’IRC (salvo rare eccezioni): le storie di Abramo, di Isacco, Giacobbe, Mosè, Davide, ecc… sono illustrate come momento antecedente e preparatorio al rivelarsi di Dio in Gesù.
Questo tipo di ermeneutica della continuità è legittimo, intendiamoci, per chi è teologo cristiano. Tuttavia, corre il rischio di non riuscire a mettere bene in evidenza ciò che sarebbe proprio dell’Ebraismo, nonostante il Cristianesimo. Di conseguenza, dopo anni di catechesi parrocchiali ed insegnamenti scolastici in cui la religione ebraica è stata presentata come anticipazione di quella cristiana, ci si potrebbe domandare: che cos’è peculiare dell’Ebraismo? In che cosa questa religione, ancor oggi presente in diverse parti del mondo (e non solo nello Stato d’Israele), si distingue dal Cristianesimo? Ebbene, la lezione svolta alla classe quinta è stata un tentativo di rispondere a queste domande attivando un’ermeneutica della discontinuità. Provo a farne una sintesi qui di seguito.
Per rispondere agli interrogati sopra indicati, si può notare che un primo aspetto tipico dell’Ebraismo, che ne è anche il “cuore” – se così si può dire -, sta nel suo non essere, diversamente dal Cristianesimo e dall’Islam, una religione fondata su dogmi da credere. Per un ebreo non esiste un’ortodossia collegata ad affermazioni di fede, univoche, standard ed indiscutibili. Per essere islamico è necessario affermare pubblicamente che Dio sia uno ed uno solo. Allo stesso modo per un cristiano la fede nella Uni-Trinità di Dio è dogma di fede da professare come ineffabile Mistero collegato all’incarnazione di Dio in Gesù. Ecco: nell’Ebraismo non si dà questo modo di intendere la fede di tipo dogmatico. Per un ebreo, la vita in relazione a Dio è una pratica da attuare, non una teoria da professare: è “ortoprassi” e non “ortodossia”. O meglio, è disponibilità a vivere in un certo modo e, solo in un secondo tempo, a raccontare e predicare di Dio e di come opera nella vita del fedele.
Per un devoto ebreo, quindi, esser fedeli a Dio significa mettere in pratica i precetti divini (in lingua ebraica antica Mitzvot) dati da Dio attraverso Mosè. E cosa sono questi precetti? Delle leggi stabilite come comandi, violando i quali si incappa nei castighi divini? Non proprio. I precetti divini, contenuti nella Torah (che significa “insegnamento” e non “imperativo”) sono insegnamenti dati da Dio al popolo di Israele perché impari a seguirli e praticarli con cuore puro e sincero. La “Legge” divina per un ebreo è norma educativa: Dio è un educatore, un insegnante e non un comandante in capo. Egli desidera educare il cuore dell’uomo secondo i suoi insegnamenti. Non per nulla, i dieci precetti divini fondamentali (i cosiddetti “10 comandamenti” o “decalogo“, che significa “dieci parole”) dati a Mosè sul Sinai non sono scritti come imperativi. Per esempio, non troviamo scritto letteralmente: “Non devi uccidere!”, bensì “Non ucciderai”. Il che va interpretato, per un ebreo osservante, in questa maniera: “Se hai imparato ad essere in alleanza con Dio nel tuo agire, di conseguenza… non ucciderai”.
Il fatto che sia Mosè ad aver ricevuto da Dio i precetti, fa di lui il vero e primo Maestro in Israele. Questo è un esempio cristallino per mostrare come non funzioni una certa sbadata ermeneutica della continuità fra Ebraismo e Cristianesimo. Il personaggio fondamentale per il popolo ebraico non è il patriarca Abramo, come spesso si lascia intendere nei libri di testo per l’insegnamento della Religione Cattolica. Il personaggio focale dell’ebraismo è Mosè. Non a caso, tutti gli ebrei osservanti lo chiamano Mosè “Rabbenu”, cioè “Maestro”: un titolo onorifico che spetta principalmente a lui e, solo in un secondo momento, ad altri personaggi biblici o maestri della Torah. La fede di Abramo, Isacco e Giacobbe per un ebreo, è incomprensibile senza far riferimento a Mosè.
A partire da qui, si danno poi due vie di devozione per testimoniare la fedeltà a Dio da parte di ogni ebreo ortodosso. La prima è la via della Halakah, ovvero del “camminare” nella vita seguendo e praticando i precetti divini. Questa via di prassi rappresenta il vero culto dato a Dio da parte di ogni ebreo devoto. L’assemblea sinagogale, in cui si proclama pubblicamente la Torah, esiste e vive in funzione a questo culto esistenziale. Infatti, il motivo per cui in Sinagoga vengono rilette e proclamate le parole di Dio è per poterle ascoltare, nel senso di praticarle. Per renderle effettive nella prassi, il fedele ebreo deve darsi due disponibilità: anzitutto, la disponibilità a porre le parole di Dio sopra ogni cosa nella sua considerazione, ascoltandole come le parole più preziose che ode, così come si trova scritto nel libro del Deuteronomio, capitolo 6, versetti 4-6: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore”; secondariamente, la disponibilità a praticare quelle parole nella sua quotidianità, così come si legge nel libro del Deuteronomio, al capitolo 5, versetto 26: “Tu (riferito a Mosè) ci riferirai tutto ciò che il Signore, nostro Dio, ti avrà detto : noi lo ascolteremo e lo praticheremo”.
La seconda via spirituale, successiva e conseguente alla prima, è quella della Haggadah, ovvero della “narrazione“, del commento alla Torah, della predicazione orale. Questa seconda modalità di testimonianza della relazione con Dio è tipica dei maestri e dei commentatori ebrei, ovvero dei rabbini. Sempre nel capitolo 6 del Deuteronomio al versetto 7 si trova scritto che i precetti di Dio fissi nel cuore: “Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai”. Come si può intuire l’Haggadah è una via susseguente alla Halakah, perché solo colui che pratica i precetti può poi raccontare in che senso Dio opera da suo alleato nella vita. Accade qualcosa di simile a quando si intende raccontare come si vive una relazione d’amore: prima viene lo stare in un certo modo in relazione all’amata, poi, solo in seguito, il raccontare il senso di ciò che si vive. Su questa via, si comprende bene la ragione per cui il racconto orale introno a Dio non è una dogmatica uguale e standardizzata per tutti. Dio può “parlare” le sue parole nella vita di un devoto che osserva i suoi precetti in maniera unica ed irripetibile, come accade agli amanti fedeli. Così, in Israele, ci possono essere molti maestri che raccontano e commentano le parole di Dio date a Mosè e presenti nella loro vita di fede.
A questo punto, se proprio si volesse istituire un’ermeneutica della continuità fra Ebraismo e Cristianesimo, si potrebbe far notare che anche Gesù stesso è stato riconosciuto come “rabbunì“, cioè “maestro buono” in Israele. Egli, come si racconta nei Vangeli di Marco (capitolo 12, 28-31) e Matteo (capitolo 22, 35-40), di fronte ad un rabbino che gli chiese quale fosse il primo e più importante dei precetti, rispose che si tratta dell’amore di Dio sopra ogni cosa e dell’amore del prossimo come se stessi. Sentendo questa risposta, il rabbino si trovò d’accordo con quanto insegnato dal maestro Gesù. Si può ben notare che la risposta di Gesù è “classica” nell’impostazione ebraica qui presentata. Infatti, solo chi pone le parole di Dio al di sopra di tutto nel suo cuore, potrà poi praticarle sia in relazione a Dio sia in relazione al suo prossimo. Non è dunque possibile per un ebreo osservante, men che meno per quel rabbino ebreo di Nazareth che noi cristiani riteniamo Figlio di Dio, poter amare autenticamente il prossimo senza avere un cuore che ama Dio in primis.
Ed è qui, credo, che si possa trovare, in conclusione, un collegamento per comprendere in che senso la guerra in atto oggi nello Stato d’Israele non può essere giustificata in nome della religione ebraica. Al più, chi sostiene l’attuale azione guerresca dello Stato d’Israele nella Striscia di Gaza, la potrà ritenere legittima come risposta militare ad un’indebita e gratuita aggressione. Ma, di certo, non si può giustificare tale azione in nome di quel Dio che ha insegnato di ascoltare bene e praticare il precetto: “Non ucciderai!”. A questo proposito, a me fa particolarmente specie che, ancora una volta, la guerra sia attiva nel territorio di cui è capitale Gerusalemme, ovvero la “città santa”.
Mi fa specie perché, letteralmente “Yerushalayim” significa “Città della doppia pace“: pace fra Dio e gli uomini e pace degli uomini fra di loro in nome di Dio. “Gerusalemme” è, quindi, il nome di un luogo santo che indica il doppio precetto dell’amore di Dio e del prossimo di cui l’ebreo Gesù si è fatto cristallino interprete. Tuttavia, riflettendo più a fondo, è proprio qui che le due tradizioni di fede, quella ebraica e quella cristiana, non sono in continuità l’una con l’altra. Infatti, per la fede cristiana la Gerusalemme terrena è solo prefigurazione di quella Celeste che discende dal Cielo in Gesù Cristo. Non è una città che si trova in un luogo fisico, bensì in quel luogo che è il cuore umano rinnovato e reso il nuovo Tempio dello Spirito Santo, Spirito di Consolazione e di Pace.
Perciò, il Regno di Dio di cui Gesù è Signore e Maestro, non si realizza pienamente in questo mondo, sebbene qui cominci a mostrarsi esistente e palpitante in alcune anime che hanno ricevuto il dono della redenzione dal peccato per mezzo della sua passione, morte e resurrezione. Allora, in definitiva, si capisce che, per chi ha la fede teologale, la Pace di Cristo non è come quella che può dare il mondo. Men che meno un mondo in cui alcuni si ostinano a credere che sia sensato fare la guerra in nome di Dio, immaginando che ci siano uomini suoi avversari che meritano di essere ammazzati per rendergli gloria. Ecco queste vie di omicidio, non sono le vie di Dio. Questi pensieri di sterminio non manifestano affatto la sua gloria e, men che meno, si addicono a chi intende praticare con cuore puro il precetto “non ucciderai”, come già nell’Ebraismo è bene chiaro e limpido.